Tradurre Freud

Intervento per la giornata di studio Scritture freudiane, Reggio Emilia 20 ottobre 2007

Le relazioni ascoltate stamattina mi inducono a fare alcune considerazioni.
A fronte della vitalità e del valore intrinseco, anche letterario, della lingua di Freud, e della necessità di sue continue riletture aggiornate al mutare dei tempi e delle culture, si pone un’istanza diametralmente opposta, ben esemplificata ed evocata da chi ha citato poco fa la Standard Edition, preparata per il pubblico anglosassone, di James Strachey.
L’aggettivo standard è inquietante, se si ricorda che la metapsicologia (la “strega” la denomina Freud) si presenta come un modo di speculare, teorizzare, fantasticare, come una strana alchimia e un lavoro del pensiero sempre in fieri.
Al di là dei rilievi già mossi a suo tempo da più parti a questa traduzione circa il suo carattere scientista, e circa scelte discutibili – valga per tutte quella del termine cathexis per besetzung (investimento) – esso apre la questione di una uniformità definitiva assunta come valore di riferimento, come meta ultima da raggiungere, e delle implicazioni di questa operazione.

Nella storia della psicoanalisi gruppi dominanti si sono dichiarati nel tempo unici eredi di una sua pretesa ortodossia, consolidando un potere di rappresentanza e gestione del portafoglio culturale e professionale rappresentato dalla psicoanalisi, anche attraverso l’esercizio del potere autoassegnato di legittimazione dell’autenticità del verbo psicoanalitico. Il tema del linguaggio psicoanalitico è stato affrontato da Ranchetti, e da alcune sue osservazioni prendo spunto per il mio discorso di oggi. Egli ci esorta (vedi il suo lavoro Le difficili origini della psicoanalisi in PSU n.2/2002) a non perdere di vista alcuni punti di riferimento nell’approccio alla psicoanalisi, nel tentativo di coglierne la portata originaria, distintiva, e il potenziale conoscitivo, tanto forte da risultare eversivo rispetto al pensiero corrente o dogmatizzato. Riassumerei nei punti seguenti le indicazioni date da Ranchetti nello scritto citato:

  1. Freud usa un linguaggio quotidiano, in modo tale che l’attenzione del lettore si concentri non sulla parola nuova o strana, ma sulle linee di pensiero proposte. Il suo intento era quello di continuare a scoprire e capire e non di fissare e chiudere i discorsi attorno a singoli e isolati episodi di scoperta.
  2. Il costrutto teorico di Freud mantiene sempre uno stretto contatto con la realtà concreta, le leggi della corporeità, della fisica: esso è materialistico, e la parola che dice la teoria rappresenta, una volta preso lo spunto dalla materia, la parte visibile di un processo che ne comprenda anche una non visibile.
  3. La “spiritualizzazione” della lettura e della comprensione di Freud. Ranchetti ne parla nel suo ultimo scritto citato e si riferisce proprio a questo tipo di fenomeno: astrazione dal contesto generativo della psicoanalisi, e in particolare dalla sua matrice materialistica, dal modello naturalistico, e creazione di un gergo, caduta dello stesso nelle maglie di questo o quel sistema teorico, nel dominio di un qualche campo dei saperi o delle lettere o comunque della cultura, che pretende di piegare la psicoanalisi alle sue logiche, di stabilire una appartenenza o meglio una appropriazione, e dunque il controllo preliminare sulla parola, sulla teoria, sul suo uso, i suoi compiti, le sue finalità, in regime autoritario e monopolistico.
  4. La gergalizzazione della lingua porta a una dogmatizzazione dei concetti, è il rifugio del conformismo, della rigidità.
  5. La parola ridotta a gergo entra in un rituale che la svuota di significato, e la integra in un sistema stabilizzato, nel senso che acquista per il tramite della contiguità con altri pezzi del rituale.

Come effetto di tale riduzione e di tale, si potrebbe dire, “addomesticamento”, la psicoanalisi viene privata del suo potenziale dirompente originario. Essa smette di cercare, quel che si voleva è stato già trovato. Come ricorda Ranchetti Freud diceva, prima di sbarcare in America con Jung, allora ancora allievo e seguace, che avrebbero portato la peste nel Nuovo Continente… frase sempre ripetuta e che sembrerebbe aver perduto di senso se si osservano i nuovi psicologi accorrere sul luogo del delitto a rincuorare gli astanti, e soprattutto le autorità, riconducendo il fattaccio a una sindrome di un certo tipo e quindi ricomponendo nella statistica l’anormalità apparente”[1].

La procedura di riduzione consiste nel deanimare il testo freudiano, appiattendolo sulla dimensione di un linguaggio tecnico, e creando, sotto la copertura di una invocata necessità di omogeneità lessicale per potersi intendere, una crescente gergalizzazione della lingua e della terminologia psicoanalitica. Un effetto di questa operazione è l’irrigidimento dei significati nella struttura significante, di una loro lignificazione, della cessazione della funzione e possibilità di generare in perpetuo significati e senso ulteriori. Ma ve ne è un altro ancor più temibile rispetto alla azione di riduzione del potenziale conoscitivo della psicoanalisi.
Esso consiste nel fatto che la gergalizzazione, congelando le parole, fa loro acquistare non solo un significato, ma anche un senso irrevocabile, e attribuisce un rilievo primario all’ordine meramente tecnico in cui le parole sono collocate, a tutto scapito dell’ampiezza di un ulteriore orizzonte che invece la psicoanalisi può dare all’uomo e alla sua ricerca nel mondo. Ciò comporta la perdita della possibilità di impiegarle come strumenti non solo per rappresentare pezzi di conoscenza acquisita, ma anche per continuare a produrne. Detto in altri termini, la psicoanalisi sarebbe ridotta da un lato a una qualunque tecnica di trattamento psicologico, dall’altra a un ritualismo vuoto, e perderebbe in tal modo la sua forza eversiva, la sua capacità di contaminare come peste psichica aree contigue del pensiero e di sovvertire il pensiero stesso rovesciandone le basi convenzionali: ciò che era dato per scontato, ciò che non era sottoposto a un vaglio critico circa le sue radici, le sue finalità, la sua sintonia con la cultura egemone

In base a queste riflessioni, non vedo, in nuove proposte di traduzione, il danno di andare a scompaginare un lessico psicoanalitico, una sorta di koiné linguistica, ma sarebbe meglio dire terminologica, che nei decenni si è sedimentata. Al contrario, vedo feconda l’operazione di cercare di continuare a interrogare la lingua di Freud, senza la preoccupazione, o l’interesse strategico, a stabilirne e fissarne una volta per tutte una versione definitiva per ogni lingua.
D’altra parte, proprio l’esistenza di tanti idiomi, la necessità di traduzioni per mondi diversi, e che cambieranno col tempo quanto a cultura e modi di ricezione del fatto psicoanalisi, dicono dell’impossibilità di un tentativo di congelamento linguistico, a meno di non immaginare un mondo uniformato nella sensibilità percettiva, rappresentativa, teoretica, attorno a una sola lingua egemone. L’essenza spirituale delle cose, come fa notare W. Benjamin[2], si esprime «nella lingua, e non attraverso la lingua»[3], collocandosi dunque in un medium fluido e mutevole, e non in parole statiche.
Le critiche alla resa con nuovi vocaboli di termini ormai entrati nell’uso e nell’abuso, da una parte non mi paiono fondate o così allarmanti, dall’altra non tengono conto del fatto, rimarcato anche da Ranchetti, che anche all’epoca della traduzione curata da Musatti e in assoluto, il criterio non ha mai voluto essere quello di creare un gergo speciale, assodato una volta per tutte, fruibile come rifugio acritico per dogmatici e ignoranti, che preferiscano aggrapparvisi invece di prendere la strada della ricerca continua e della speculazione, clinica sì, ma anche, nel solco freudiano, metapsicologica.

Lo scopo insomma era e vuole essere quello di riproporre in continuazione nuove e riattualizzate riflessioni sulla teoria freudiana per come e con quali contenuti si è costituita ma anche per come e quanto può sempre dare una sua rilettura, una sua rinnovata acquisizione. Un esempio, per altri forse criticabile, per me invece assai interessante di traduzione nuova consiste nel modo di rendere il termine tedesco Einfall.
La prima traduzione è stata quella di associazioni libere. La nuova proposta consiste invece nella locuzione idee spontanee. Essa ci sottrae immediatamente alle polemiche sul poter davvero essere libere delle associazioni, come alla necessità per l’analista, sottolineata da Freud, di doverle talora dirigere, orientare. Non è questa la sede per una riflessione più ampia e approfondita, ma piuttosto per lanciare un’idea nuova, quasi come una provocazione. Mi sembra, infatti, che parlare di idee spontanee possa davvero maggiormente riflettere il modo di succedersi, di concatenarsi delle idee, l’almeno apparente automatismo del pensiero che fluisce in noi, come lo ha descritto Clèrambault in chiave di oggettivazione clinica, ma ancor prima Spinoza in termini diversi e più generali.

La questione delle traduzioni di Freud è stata spesso riproposta alla pubblica opinione, e a un pubblico non limitato agli addetti ai lavori. Spunti interessanti al riguardo ci provengono infatti riecheggiati dalla stampa quotidiana. Essi testimoniano la vitalità dei testi freudiani e la continua attualità della ricerca della loro resa linguistica nei vari Paesi del mondo.
Leggiamo sul New York Times del 10 giugno 2000: «la teoria della psicoanalisi di Sigmund Freud è stata sfidata e sottoposta a revisione fin dal momento in cui è stata concepita. Ora le parole stesse di Freud (almeno per come sono state rese in Inglese) vengono riviste in parecchie nuove traduzioni che appariranno nel giro di pochi anni. Come tutte le cose psicoanalitiche, la disputa su Freud- sulla legge del copyright, punti delicati della traduzione, e il significato stesso dell’opera di Freud- ammette diverse interpretazioni contraddittorie».

In un suo pezzo su Liberation del 4 maggio 2006 Natalie Levisailles scrive: «dopo la scadenza dei diritti delle opere di Freud, nuove traduzioni compaiono in diversi Paesi. Una addirittura in Vietnam, mentre due cantieri sono aperti in Gran Bretagna. La celebre Standard Edition, pubblicata da J. Strachey fra il 1955 e il 1967, viene rivista sotto la direzione di Mark Solms, dell’Istituto di Psicoanalisi di Londra, mentre Penguin ha chiesto a un altro psicoanalista, Adam Phillips, di coordinare una nuova traduzione. Dei 17 volumi previsti i tre quarti (Al di là del principio di piacere, Il disagio della civiltà, Psicopatologia della vita quotidiana…) sono già pubblicati. Phillips ha preso partito diverso rispetto a Strachey, e anche rispetto alla nuova traduzione francese pubblicata da PUF sotto la direzione di Jean Laplanche. L’idea non è quella di rimpiazzare l’edizione di Strachey, che è meravigliosa, anche se troppo edoardiana e troppo scientifica, a suo parere. Ma l’idea di una edizione “standard” è contraria alla psicoanalisi, tutto il testo è soggetto a più traduzioni. La sua collana obbedisce a due principi: in primo luogo ogni volume ha il suo traduttore, e non vi è omogeneizzazione dei termini impiegati, ciascuno prende le sue decisioni e ne rende spiegazione nella prefazione. L’idea di Phillips è di mostrare che “ i testi psicoanalitici sono contraddittori che non si può decidere una volta per tutte. Come in un testo letterario, vi sono diverse interpretazioni possibili”. Anche su termini fondamentali e ricorrenti, come Io, Es, Super-Io e in tedesco Ich, Über-Ich, Es, si hanno differenti soluzioni. Laddove Strachey aveva scelto di latinizzare in Ego, Superego, Id, alcuni nuovi traduttori hanno deciso di riprendere Strachey, altri si sono rivolti ai termini tedeschi, altri ancora hanno scritto Sé, o meglio I, Over I, It. Inoltre, i testi sono stati affidati non ad analisti, ma a traduttori letterari, di cui alcuni non avevano mai letto Freud, “perché essi hanno una sguardo nuovo, e … non sono coinvolti in dispute fra psicoanalisti”».

«Phillips, che non esita mai» –prosegue Liberation- «a far intendere a qual punto si senta estraneo all’ambiente psicoanalitico britannico, spiega: “Voglio salvare la psicoanalisi dal gergo psicoanalitico professionale”. A differenza di M. Klein o di Lacan, aggiunge, “Freud è molto accessibile. Nei suoi scritti, egli invita il lettore a condividere un’esperienza. I suoi testi non lasciano intendere che vent’anni di analisi li farebbero essere molto intelligenti. Per leggere Freud, ci vuole lo stesso atteggiamento di chi legge un racconto”. Con la sua traduzione, egli vorrebbe rendere conto di certe “ambiguità coscienti o non coscienti degli scritti di Freud. Altri l’hanno detto prima di me: la funzione del linguaggio non è solo di informare ma anche di evocare. Questi testi non sono un manuale di istruzione, ma una meditazione sulla condizione umana”».

Perché allora non si dovrebbe poter ritornare a Freud in un processo continuo di costruzione e ricostruzione della conoscenza, di riattualizzazione e approfondimento del suo pensiero dal punto di vista della cultura e della condizione umana di oggi, e di ogni tempo, come in fondo ha fatto, tanto per fare un nome, Lacan?

Certo vi sono anche aspetti dilemmatici insiti in in ogni traduzione, appunto perfino il rischio di tradimenti, come suggerisce il titolo di questa giornata, e comunque giocano i riflessi della soggettività del traduttore, della sua cultura, sensibilità, creatività, nell’interazione col testo di Freud. Un testo di elevata qualità letteraria, un testo artistico, che per molti versi viene in soccorso del traduttore. E’ questo quid, come sostiene ancora Walter Benjamin[4], che rende possibile una traduzione: «Quanto minor valore e dignità ha la sua lingua, quanto più [l’originale] è comunicazione, e tanto meno se ne può ricavare la traduzione… Quanto più alta la qualità di un’opera e tanto più essa rimane- anche nel contatto più fuggevole col suo significato- ancora traducibile».

Ecco dunque perché a proposito di atteggiamenti tesi a chiudere, definire una volta per tutte la scoperta freudiana, denegandone l’essenza originaria, la sua irriducibilità a una qualunque psicologia o ontologia, mi pare legittimo chiedermi: cui prodest?

Note:

[1] Psicoterapia e scienze umane, XXXVI, 2/2002

[2] Benjamin, W., “La lingua”, in Angelus Novus, Saggi e Frammenti, p.54. Dice inoltre Benjamin: «…non c’è dubbio che l’espressione, nella sua intera e più riposta essenza, possa essere intesa solo come linguaggio; e d’altra parte, per intendere un essere linguistico, bisogna sempre domandarsi di quale essere spirituale esso sia l’espressione immediata. Vale a dire che la lingua tedesca, per esempio, non è affatto l’espressione per tutto ciò che noi possiamo o riteniamo di poter esprimere attraverso di essa, ma è l’espressione immediata di ciò che in essa si comunica. Questo «si» è un’essenza spirituale. Dove è per ora ovvio che l’essenza spirituale che si comunica nella lingua non è la lingua stessa, ma qualcosa di distinto da essa».

[3] Ivi.

[4] Benjamin, W., Il compito del traduttore, in Angelus Novus, p. 51.

Bibliografia:

  • Benjamin, W., (1955) Schriften (Berlin, Suhrkamp Verlag),  ”La lingua“,  in (1995) Angelus Novus, Saggi e Frammenti , a cura di Renato Solmi (Torino, Einaudi).
  • Ranchetti, M., (2002) Le difficili origini della psicoanalisi, Psicoterapia e Scienze Umane, XXXVI, n. 2/2002, (Milano ; Franco Angeli).