Per Jean-Luc Nancy

Accade raramente, dopo l’adolescenza e la prima giovinezza, che l’incontro con un pensiero lasci delle tracce tali da fare una differenza sui propri modi di pensare e con le quali non si smette di fare i conti, che lo si voglia o meno.

Da giovane mi era accaduto con Freud, con Lacan, con Foucault e potrei nominarne altri. Da adulta con Fachinelli e con Derrida.

Certamente con Jean-Luc Nancy.

Ho sempre avuto l’idea che alcune forme di pensiero siano così potenti perché hanno attraversato la carne di chi ne è abitato, come una soggezione che si fa necessità.

Nancy, dal 1992, era un “trapiantato”, ossia era stato sottoposto ad un trapianto di cuore. Proprio lui che, su una scia derridiana, se possibile ancora più radicalizzata, aveva fatto dello straniero e del suo arrivo, inatteso e senza inviti, dell’arrivante che non si annuncia, uno dei suoi temi più cari. Dal travaglio che accompagna quell’esperienza nascerà L’intruso (2000), un piccolo e impressionante libro in cui lo straniero diventa intruso proprio per non rischiare la perdita della sua estraneità, con tutte le ambiguità del caso. E lui l’intruso ce l’aveva cucito nel petto. Difficile immaginare una contingenza più efficace (una tempesta perfetta, si direbbe) per dire di un pensiero e della sua pratica inscindibile. L’estraneità alla propria identità, il vano dire “Io” perché già sono-è altrove, l’essere aperto chiuso, si incarnano in un’incisione che trattiene l’intruso all’interno, corpo estraneo al pensiero stesso ed estraneità che si rivela “al cuore” di ciò che dovrebbe essere più familiare. Questa estraneità, questo “regime permanente dell’intrusione”, lo mettono in contatto con se stesso, scrive il trapiantato Nancy.

Nancy è considerato, tra le molte altre cose, il filosofo “del corpo”. Effettivamente scriveva non del corpo, ma il corpo, come lui stesso amava dire, i corpi: corpi nudi, corpi stranieri, corpi goduti, corpi esposti. Nello scrivere il corpo non si tratta, secondo lui, di significarlo ma di raggiungerlo, di toccarlo. Sul limite tra il senso e la carne (del corpo), dove niente passa, è proprio lì che si tocca, scrive in Corpus (1995), un testo criptico, poetico, del tutto disorientante. Toccare è il non penetrare ciò che è impenetrabile, esiliato da ogni possibilità di unione (lacanianamente si direbbe: non c’è rapporto sessuale), irrimediabilmente parziale.
Come la nostra esistenza stessa, del resto, che ha nel corpo il proprio unico supporto, anzi, i corpi sono l’atto stesso dell’esistenza, l’essere, scrive Nancy, in questo apparentemente vicino al Lacan tardivo, quello che insiste sull’Uno del godimento, ultimo bastione delle significazioni.

Eppure Nancy è sempre stato diffidente e critico verso la psicoanalisi e il lacanismo e, forse proprio per questo, li interroga, come era stato anche per Derrida. Sospettoso perché persino la stessa ambizione di significare (fin dove si può o si vuole) è, appunto, un arbitrio, una violenza (cosa del tutto vera, psicoanaliticamente parlando) che vuole addomesticare l’intruso.
Diffida dei corpi troppo “significantizzati”, dei corpi isterici, corpi che sarebbero, invece, bloccati dalla continua trasmissione di significato (proprio il sintomo), espropriati dal loro libero fluttuare fuori senso; rivendica un corpo che sia esposto a quella continua effrazione del senso che la vita semplicemente costituisce. Accusa Lacan di fare esercizio di “catastrologia” inscrivendosi in una tradizione che articola il desiderio alla mancanza e afferma il “c’è” del rapporto sessuale, in opposizione all’enunciazione lacaniana, affidando ai corpi e al loro incidentale toccarsi e godersi l’unico amore a cui ambire (L’”il y a” du rapport sexuel, 2000). Il “non” è già una proprietà del rapporto, rimanda a una qualche sostanza, a un’unità che mette al riparo dal vuoto insostenibile che si apre tra(i corpi).

La prospettiva di Nancy ci convoca ad una presenza che non occhieggi un qualsiasi altrove se non quello del corpo dell’altro e del proprio, altrettanto estraneo, e a quel tra così importante. Corpi che (si) toccano e godono in equilibrio sempre precario, sfiorando e misurando i limiti senza pretendere di violarli o di ignorarli. La rinuncia alla rapacità a favore del muoversi su quel trache è sempre una soglia, un bordo, porterà a scoprire una reale alterità in qualsiasi forma si presenti (corpo di: animale umano, animale non umano, donna, migrante, ecc.)?

Nancy sembra augurarselo, o meglio, pensa che sia l’unica via che ci salverà da una catastrofe. Non sembra così avventuroso dire che qui troviamo qualcosa del Seminario XX anche se Nancy sembri non solo convinto che si debba parlare di ciò di cui non si può parlare, ma a suo modo ancora più determinato a rendere praticabile una condivisione dell’incondivisibile (che non si fonde, non si unisce), assumendo l’estraneità come qualcosa oltre la quale non c’è niente se non l’estraneità stessa.

 

Cristiana Cimino, 25 agosto 2021